Il Gott ist Tot di Pascal Dombis, di GianCarlo Pagliasso

Pascal Dombis è balzato agli onori della cronaca lo scorso autunno per aver allocato al Palais Royal di Parigi un tappeto in polimeri di 130 cm. di larghezza, lungo i 252 metri de La Galerie de Valois, su cui erano stampati testi di 39 autori (tra i duecento presi in considerazione dall’artista), che hanno trattato del celebre monumento parigino. Il procedimento adottato era quello della proliferazione estrema di frasi scritte a diversa scala.

Dombis, infatti, lavora sulla stratificazione di immagini e parole, presentate in composizioni di dittici o trittici, risultato di algoritmi frattalici programmati al computer, in cui tutto quanto proviene dal web si compone, grazie alla stampa su supporto lenticolare, in una sorta di ologramma che conferisce senso di inquietudine e vertigine prospettica ai costrutti sintattici o immaginali così trovati nella dimensione atopica del virtuale.

Nel multispazio che lo spettatore incontra muovendosi, aggregazioni di significato impreviste compaiono subitanee e altrettanto celermente si dissolvono, lasciando campo alla casualità sintagmatica che ‘l’impressione’ digitale è in grado di creare. Per la sua personale, presso Claudio Bottello Contemporary, lo spunto su cui ha lavorato è legato alla presenza di Nietzsche nel capoluogo piemontese. La celebre frase de La gaia scienza, annunciante la «morte di Dio», è alla base dell’installazione che occupa, come un fil rouge, tutta la superficie della galleria. Occorre precisare, tuttavia, che l’ottica con cui l’argomento complesso del titolo viene trattato dall’artista ha poco a che fare con le implicazioni nichilistiche attive e passive relative alla natura ‘eventuale’ dell’annuncio, ma pare inserirsi piuttosto già sullo sfondo delle conseguenze ‘per il simbolico’ che un tale affermazione apre. Le rimodulazioni ‘discorsive’ e iconiche – che Dombis ci prospetta – in certo qual modo sono un possibile manifestarsi di quella liberazione «del e dal» simbolico ormai all’opera nel mondo contemporaneo, in cui « la favola » preconizzata dal pensatore di Röcken ha la ‘solida’ valenza ontologica della primazia delle immagini.

La sua ricerca è accostabile, con approccio epistemologico nient’affatto ingenuo, alle istanze di chiarificazione ermeneutica di forme di sapere in cui le componenti estetica e scientifica sempre più sono pensate in vista di una loro unificazione fondata sul riferimento all’immagine (1). Infatti, nella prima sala, con lungimiranza quanto mai opportuna, sono presenti lavori lenticolari con esplosioni dei segni «pericolo» e «atomico» in aggiunta a quattro pannelli con l’evenienza della scritta ‘Dio è morto’ in italiano, inglese, francese e tedesco.

Nella seconda, è visibile un’installazione a muro con compressione/sovrapposizione della medesima frase stampata sinteticamente su pvc migliaia di volte nelle quattro lingue.

Infine, l’ultimo spazio ospita due monitors contrapposti sui quali scorrono migliaia di immagini, tratte da internet, a velocità diversa. Le parole chiave per richiamare le immagini sono il nero, il rosso e il bianco. Questi tre colori sono la base costitutiva dei sistemi simbolici figurativi occidentale e asiatico. Come sorgenti dell’immaginario dei due continenti che si fronteggiano, il loro flusso ininterrotto viene a costituire un’occasione di confronto/scontro tra prospettive sorprendentemente più vicine di quanto si sospetti.

Giancarlo Pagliasso 

April 2011


(1) È singolare che in un libro recentissimo, in cui questa prospettiva viene teoricamente affrontata in tutta la sua complessità, si legga:« Vogliamo riprendere la questione alla luce del nichilismo sul quale già sopra ci si è soffermati […] La tesi che si vuole qui introdurre è che la cosiddetta «morte di Dio» annunciata da Nietzsche nella Gaia Scienza, da intendersi come venir meno dell’Ente supremo, vero e proprio compimento dell’ordine concettuale, visivo e discorsivo, produca insieme il fuoriuscire e il riconoscimento di nuove strutture simboliche dall’aspetto insieme rigoglioso ed inquietante ». ( Cfr., Olaf Breidbach e Federico Vercellone Pensare per immagini. Tra arte e scienza, Milano, Bruno Mondadori, 2010, p.31).